Riccardo Muti: "Il mio sogno? Salvare la musica"
Tra la classica sempre più sofisticata e le canzonette c'è il vuoto. Ma i ritmi della globalizzazione cambieranno il nostro mondo. In meglio. Così il grande maestro guarda al futuro
Riccardo Muti
Visto dalla platea,
mentre conduce una prova d'orchestra in una chiesa sconsacrata di
Piacenza, Riccardo Muti conferma semplicemente il suo mito di grande
direttore. Ma la scelta di farsi osservare nei gesti inimitabili con cui
indirizza, trascina, corregge i giovani musicisti dell'orchestra Luigi
Cherubini da lui fondata e diretta, sembra fatta apposta per introdurre
un incontro che capovolgerà le aspettative.Chi si avvicina per la prima volta a Muti è infatti carico di idee
ricevute su un rigore che sconfina nella durezza, su un carattere
intransigente e su quell'eccessivo senso di sé che lo porta a gesti
plateali di rottura, come quando abbandonò la direzione della Scala o
quando annullò un concerto a Buckingham Palace per il sessantesimo
compleanno del principe Carlo perché Camilla voleva cambiare il
programma. Nessuno che ne metta in dubbio la grandezza artistica, ma
molti che ne descrivono l'inclemenza.
L'uomo che in questo colloquio svelerà le sue idee sulla società che
imbarbarisce, sulla cultura musicale che decade, sulla globalizzazione
che la salverà, ma anche sul tempo che scorre e sul senso del divino, è
invece una persona di rara cortesia e di notevole empatia, capace di
pensieri lunghi affidati a un linguaggio condito da citazioni classiche e
da guizzanti battute napoletane. Se ne conclude che, come capita ai
grandi uomini, Muti è un personaggio che divide. Con consapevole
partigianeria, gli lasciamo quindi la parola.
Maestro, proprio in questi giorni dirigerà un concerto al Quirinale per celebrare la festa della Repubblica. Pensa mai che avrebbe potuto essere lei il nuovo presidente?
«La proposta c'è stata, e qualcuno l'ha anche ripetutamente invocata, ma
il primo a non prenderla sul serio sono stato io. Faccio il musicista,
che già di per sé è una professione ardua, e non ho competenze in
politica. Anche se...»
Anche se?
«Mi ha divertito la sagacia di un muratore di Ravenna che, in quei
giorni, riconoscendomi per strada, mi ha detto "Oh maestro, perché non
accetta? Se fa lei il presidente, cambia la musica!».
Com'è, a suo parere, la musica attuale?
«Fuori di metafora, è risaputo che da decenni conduco una battaglia in
favore della cultura musicale. La ritengo una delle spine dorsali della
storia del nostro Paese».
Non sembra che finora i suoi appelli siano stati ascoltati.
«Purtroppo no. Fa da freno l'atavica ignoranza musicale dei politici.
Non lo fanno neanche apposta: semplicemente ignorano. Nei miei anni al
Maggio fiorentino e alla Scala ne ho visti pochissimi. Se, come dicono,
non ci sono risorse, che si lasci almeno fare ai privati. Ogni paese
italiano ha il suo teatro e ha anche il suo ricco epulone che potrebbe
aprirlo ai giovani locali, molto spesso dotati di idee più nuove delle
cosiddette avanguardie, che sono più vecchie della vecchiaia».
Sospetto che pensi a qualcuno in particolare.
«Penso a una società che sta diventando sempre più visiva e che riduce
tutto a "evento" svuotando l'arte del suo significato più profondo.
Anche nella musica classica ormai fa più colpo il saltimbanco di turno
di chi cerca di lavorare in profondità. Pianisti come Richter, Benedetti
Michelangeli o Pollini, violinisti come Ojstrach o Francescatti stanno
lasciando il posto a tanti saltimbanchi. Eppure non mi stancherò di dire
che è proprio con la musica che si può aiutare a costruire una società
migliore».
È questa una frase che ripete spesso. Ma che, detta così, può
somigliare a uno slogan. Vorrei che la spiegasse perché non cada ancora
nel vuoto.
«Gianfranco Ravasi mi ha ricordato giorni fa una magnifica esortazione
di Cassiodoro: "Se noi uomini continueremo a commettere ingiustizie, Dio
ci punirà togliendoci la musica". Ecco, io sono convinto che
dall'universo scendano raggi di suoni che girano in armonia e investono
il nostro pianeta. Qualcuno ne è attraversato di più, come Mozart che a
35 anni aveva scritto ciò che è impossibile scrivere in una vita, e
tutti capolavori. Altri ne restano indenni. Le sembrerà un'ingenuità, ma
sento che la musica non è una cosa che abbiamo inventato noi: fanno
musica gli uccelli che cantano, il tuono che rimbomba, il mare che si
muove, le foglie che vibrano. Dal punto di vista scientifico la musica è
una costruzione, ma da quello emotivo è semplicemente un'armonia che ci
investe e ci fa diventare migliori».
Sta dicendo che si può godere la musica anche senza essere dei
competenti? È una consolazione per quanti ne sentono la soggezione.
«Si guardi dai famosi competenti. Sono personaggi con gli occhiali neri,
il colorito bianco, che rasentano i muri e, all'uscita del teatro, si
mettono il cappello alle ventitré, nero anch'esso. Più iettatori che
intenditori. Intendere peraltro è la parola più sbagliata per la musica.
Anche Dante nel XIV canto del "Paradiso" suggerisce che la musica è
rapimento non comprensione. Per questo nelle scuole non va insegnata
meccanicamente, ma fatta ascoltare. Quando io dirigo una sinfonia di
Beethoven o di Brahms, ne posseggo la struttura, ma il messaggio che è
dietro le note proviene dall'infinito».
Se la natura ha la sua musica, anche i popoli esprimono suoni
diversi. Non pensa che la globalizzazione, mentre mischia le genti,
finirà per produrre una nuova confusione delle lingue, una Torre di
Babele musicale che farà nascere qualcosa di inedito?
«Non solo lo penso, ma ne sono convinto. La composizione contemporanea
ha preso ormai completamente le distanze dal pubblico. Mozart parlava a
persone che capivano il suo linguaggio, già l'ultimo Beethoven andava
verso un mondo metafisico. Oggi è una musica per pochi eletti,
generalmente divisa in isole, europea, orientale, americana, ecc. La
globalizzazione porterà nuovi elementi ritmici, timbrici, melodici,
armonici da cui nascerà una nuova alba».
C'è però una musica che ha già invaso il mondo: quella pop. Che rapporto ha con i generi popolari?
«Tutta la musica ha un suo valore, e ritengo il jazz una forma d'arte,
ma è evidente che c'è quella che compiace e piace perché non fa pensare.
Il pubblico divora queste invenzioni melodiche da spiagge romagnole.
Prima c'era Modugno, c'erano le grandi canzoni napoletane. Ma oggi, tra
la classica sempre più sofisticata e il semplicismo delle canzonette,
c'è il vuoto. La globalizzazione lo colmerà e, dopo anni di crisi, di
lotte e di sangue, si arriverà forse a un mondo migliore. Che
probabilmente io non vedrò».
Già, come vive il tempo che passa? Lei è stato, ed è ancora, un
uomo di grande presenza e successo. Ma fra poco avrà 74 anni. Sta
facendo i conti con la sua età?
«Mi rifugio nella saggezza contadina. Poco tempo fa, nella mia terra di
Puglia, un contadino al quale con tipico machismo meridionale avevo
detto di sentirmi ancora nel pieno delle forze, mi ha mostrato una
bacchetta: "Vabbè, maestro, ma lei ha presente un metro? Ora è arrivato
qua, le rimane questo pezzetto».
Quindi è sereno?
«Sereno non direi. Anche se ho dei figli e dei nipoti meravigliosi che
sono in qualche modo la mia continuazione, mi dispiace parecchio
lasciare questo mondo. Perché questo mondo l'ho amato molto, come ho
amato il mio Paese. Ma non c'è niente da fare e non mi resta che
immaginarmi un futuro da fantasma che vivrà nei pressi del castello di
Federico II e che andrà a terrorizzare i musicisti che sbagliano. Lo
dico spesso ai miei allievi, che però non mi prendono sul serio».
Dovrebbero?
«Perché no? Insieme ai miei cinque fratelli, io sono cresciuto a
Molfetta, terra antica dove la morte era con noi fin da bambini. C'era
la Chiesa della morte, le statue erano portate in processione
dall'"Arciconfraternita della morte dal sacco nero" e, alla mezzanotte
dell'ultimo giorno di carnevale, c'era un rintocco, come nel Falstaff,
al cui suono tutti si toglievano le maschere. In quello stesso momento
un gruppo di incappucciati usciva dalla chiesa e avvertiva: "Comincia la
quaresima».
Racconta immagini minacciose come se fossero liete. Le posso chiedere se crede che ci sia una vita oltre la morte?
«Non possiamo essere soltanto un aggregato di elementi fisici e chimici.
Di questo sono convintissimo. Specie dopo che ho avuto l'esperienza di
vedere morire i miei genitori e un fratello. Fino a un momento prima c'è
una levità del corpo, una leggerezza, poi il corpo diventa un sasso. In
mezzo c'è stato l'ultimo respiro, lungo, liberatorio, con qualcosa che
sembra salire e ricongiungersi all'energia dell'universo incorruttibile e
intramontabile. Torna là da dove è venuta. È quella energia che ci fa
sentire il senso della moralità, degli affetti, dell'amore. Altrimenti
non ci sarebbe ragione perché io diriga la Messa di Requiem di Verdi».
Quindi Dio c'è?
«Ah sì, qualcuno c'è. Si chiami Dio, Allah, Jeova o Budda, è sempre lo
stesso. Forse racchiude quell'energia, forse no. Non conviene indagare
il mistero. Si rischia quella sensazione di sperdimento che si prova di
fronte all'idea dell'eternità. Ne ho qualche vaga intuizione di notte,
tra il sonno e la veglia, quando si può percepire il senso di qualcosa
che non finisce, che non finisce... e che fa paura».
Torniamo sulla terra, maestro, e al lavoro che le ha riempito la
vita. Stare su quel podio, alla guida di tante persone, facendo di
tante voci un insieme compiuto, non può che dare una sensazione di
onnipotenza. Lei l'ha conosciuta?
«Io ho conosciuto soprattutto un'isola di solitudine. Il direttore è
solo, con l'orchestra davanti e il pubblico dietro. E resta separato da
entrambi. C'è stato un periodo in cui era un dittatore che poteva mandar
via con un solo cenno del capo un musicista, ma anche grazie alle
battaglie sindacali non è più così. Però va detto che non può neanche
essere uno che chiede un parere ai vari strumentisti. Il vero direttore è
colui che riesce a coinvolgere l'orchestra su un'idea interpretativa e
la porta con sé».
Se vogliamo dargli un nome, questo è carisma.
«Può darsi, ma tutto riporta a quell'energia vitale di cui parlavamo. La
mia è ora al servizio dei ragazzi dell'orchestra giovanile Cherubini e
dell'accademia per direttori d'orchestra e maestri collaboratori che sta
per essere inaugurata a Ravenna. È arrivato il momento di trasmettere
quello che ho imparato dai miei insegnanti e dall'esperienza di una
vita».
di Stefania Rossini
L'Espresso 02 giugno 2015